fabrizio dusi
BOCCONI PROJECT
Artefiera 2013
Miart 2012
Mostra TALKING HEAD
"Stop making sense"
by Sharon Hecker
"Le contaminazioni"
by Beatrice Buscaroli
opere
Artefiera 2012
vari
bio
stampa/pubblicazioni
link
news
email

STOP MAKING SENSE | ENGLISH



STOP MAKING SENSE: FABRIZIO DUSI’S TALKING HEADS

“You start a conversation you can’t even finish it. You’re talkin’ a lot, but you’re not sayin’ anything. When I have nothing to say, my lips are sealed. Say something once, why say it again?

Talking Heads, “Psycho Killer” Talking Heads: 77

Il personaggio che Fabrizio Dusi ritrae è un tipo qualunque, in jeans e maglietta; guarda in alto, un po’ di traverso, o dritto davanti a sé. Apre la bocca e fa uscire un flusso di “parole” espressive e colorate. Sta parlando? Cantando? Gridando? Che cosa sta dicendo? A chi?

Il personaggio di Dusi a volte parla con una tipa qualunque. Li si coglie in una “conversazione,” un flusso vivacemente colorato, un discorso che allo stesso tempo li unisce e li separa. Per entrambi il linguaggio del corpo resta immobile: le figure sono “tutto contenuto e niente azione”. (1)

Se ci si imbatte in un’opera di Dusi in una galleria, in una casa privata o in uno spazio pubblico non si può fare a meno di fermarsi ad ammirare il lavoro e la manufattura. I "testi" emessi dalla bocca del personaggio, simili a un fumetto, sembrano fluttuare in cielo senza sforzo, come le palline di un giocoliere. Oppure svolazzano come nubi irregolari, o rimbalzano tra le due figure in un vibrante scambio visivo. Questi giocolieri giocano con le bocche e non con le mani, che restano invece immobili lungo i fianchi. I loro corpi sono disimpegnati, non coinvolti.

A uno sguardo più attento, diventa importante l’utilizzo insolito che Dusi fa del materiale. La conversazione tra i due, apparentemente senza senso, inizia ad assumere significato, perché Dusi elabora un dialogo tra scultura e pittura in modo attento, leggero e giocoso. I suoi lavori uniscono una tendenza scultorea verso la verticalità, attirando lo sguardo verso l’alto, e una propensione verso l’orizzontalità pittorica, essendo le installazioni appese inaspettatamente sui muri. L’esito è una serie di ceramiche modellate a mano, in forma al contempo tridimensionale e bidimensionale, come immagini appiattite e dipinte ad arte. L’abilità di Dusi sta nel capovolgere il gioco tra scultura e pittura nei suoi “quadri,” opere affollate di teste parlanti, tutte uguali, per le quali usa tele che “dipinge” di smalto per ceramica.

Vuoto e pieno sono parole chiave che definiscono il lavoro di Dusi. Gli ammassi di teste nei dipinti contrastano con la levità delle “parole” fluttuanti che escono dalle figure singole rappresentate nelle sculture. Vuoto e pieno sono concetti che si estendono al modo stesso in cui Dusi concepisce le “parole” scolpite, alcune riempite di colore, altre semplificate in una silhouette. Le opere stesse sono al contempo fisicamente leggere e pesanti, dal momento che la ceramica non è un materiale senza peso e appenderla al muro non è un’operazione scontanta.

La scelta del materiale di Dusi si radica nella tradizione artistica italiana della ceramica, già sperimentata da Fausto Melotti e Lucio Fontana. Fontana comincia con la ceramica e da qui sviluppa una tecnica speciale per bucare e tagliare le sue celeberrime tele. Le ceramiche di Fontana giocano sul confine tra il bi- e il tridimensionale, specialmente quelle destinate ad ambiti pubblici, quali il fregio fluorescente intitolato Battaglia al cinema Arlecchino di Milano (1947) e i pannelli materici della Via Crucis smaltati a vetro nella chiesa di San Fedele (1947-57). Come Fontana prima di lui, Dusi trasforma un mezzo come la ceramica, d’uso di connotazione prettamente artigianale, in opere d’arte.

Le ispirazioni artistiche di Dusi vanno al di là dei confini nazionali. Si legano agli scultori francesi della prima metà del Ventesimo secolo, come Fernand Léger e Jean Debuffet, ambedue grandi sperimentatori coi materiali. Dallo stile pre-pop art di Léger Dusi deriva una semplificazione visiva come pure una passione per i colori saturi e brillanti. Altra interessante coincidenza è che né Legéer né Dusi hanno iniziato la loro carriera come ceramisti, eppure, alla fine della sua carriera, Léger pittore sente l’impulso di volgersi alla ceramica, in cerca di un legame con l'architettura; allo stesso modo Dusi sente l'improvviso bisogno di trasformarsi da grafico a ceramista. E Dusi condivide con Léger il desiderio di essere autonomo nell’esecuzione, prendendosi cura della propria creazione dal momento del concepimento alla realizzazione finale. Nel 1949, installando una fornace nello studio di Biot nel sud della Francia, Léger avverte il bisogno di un'autonomia che non si allinea alla divisione del lavoro tra l’ideatore e l’esecutore nella scultura moderna.

Ma l’ispirazione di Dusi risale anche a tempi più recenti. Il suo apprezzamento per l’artista americano Keith Haring lo lega al mondo della street art e dei graffiti. Condivide con Haring il fascino del potere della linea: semplice, diretto, sul muro. Come Haring Dusi disegna liberamente con il linguaggio del fumetto e si è tentati di vedere nel suo “tipo qualunque” un legame con la tradizione delle strisce americane di Dennis the Menace o Calvin e Hobbes. Il fumetto, così come il graffito, è disegnato in velocità, uno schizzo rapido. Dusi sovverte il concetto della velocità usando la ceramica, materiale che richiede un processo lento, fatto di molteplici passaggi. Anche il richiamo alla metropolitana accomuna i due: quella milanese ispira la creatività di Dusi come quella di New York ispirò la creatività di Haring.

Il desiderio di Dusi di raccogliere l'energia creativa del chiasso cittadino e poi restituire l'opera d'arte agli spazi pubblici della città ricorda l'interesse del primo Fontana per le opere ceramiche destinate a uno spazio pubblico. Le opere di Dusi giocano con gli ambienti in cui si trovano, si mischiano ad essi, e li commentano con ironia. Dusi sceglie titoli arguti che suggeriscono il contenuto sociale dell’opera. La serie delle sculture chiamate Bla bla bla e i dipinti intitolati Folla alludono al chiacchiericcio echeggiante e blasé, una chiacchiera di poco conto, forma vuota di comunicazione che riempie lo spazio e prende il posto delle parole vere, giocando ancora una volta con i concetti di pieno e vuoto.

Le silhouette di Parole vuote costituiscono un esempio della capacità di Dusi di unire l’abile manualità artigianale a un'ironia intellettuale. La stessa ironia si coglie in un’opera da esterni, Parole al vento: il personaggio di ceramica è installato in un giardino, di fronte a un albero, e le “parole” paiono essere spinte da un forte vento invisibile, volandogli sopra la testa e allontanandosi dietro le sue spalle. L'arte di Dusi perciò si riferisce anche a un tipo di vuoto colorato che riguarda i modi spontanei e leggeri della comunicazione umana dei nostri giorni. Il messaggio si carica di ironia quando installa il Bla bla bla in uno spazio del salotto dedicato alla conversazione o sopra il letto di una coppia. La pesantezza e la leggerezza di un dialogare gentile e intimo si estende dalla ceramica alle parole reali che si immaginano scambiate sotto la scultura.

Scegliendo la ceramica come il mezzo espressivo preferito, Dusi utilizza un materiale antico per comunicare un tema moderno e attuale. Tuttavia il suo ritorno a radici è istruttivo pure da un altro punto di vista: anche quando la gente chiacchiera frivolmente, accadono cose imprevedibili. Nella Grecia antica parole apparentemente senza senso nascondevano un risvolto fertile. Si pensi alla storia di Eco e Narciso dove, mentre Zeus fa l'amore con le ninfe, Era ed Eco parlano sullo sfondo, creando quella che è stata definita “fertilità segreta”. “Fra le parole, dietro le parole Zeus fa sempre l'amore con le Ninfe”. (2) Le sculture di Dusi riguardano il “bla bla” tanto quanto riguardano tutto ciò che, denso di significati, accade intorno a loro, sopra, sotto, dietro, dentro di loro. Parole che non si riferiscono a nulla di specifico o di fattuale, parole/non parole che sono piene di colore, piene di forma, seducenti.

Accade a volte che Dusi permetta che il pieno e il vuoto si mischino come in un gioco. Nel caso di Apollo, installato sulla scala del cinema Apollo, la scelta di rappresentare la silhouette di Apollo è appropriata non solo come richiamo al nome del cinema, ma perché il dio del sole (si noti il piccolo sole che Dusi ha usato per riempire la “o” del suo nome) era anche il dio della poesia, della musica, dell'arte. Dusi si focalizza su una singola parola, contrariamente alla sua consuetudine che vede il linguaggio rappresentato in molteplici bolle colorate e forme astratte. Anche la scelta della parola stessa è curiosa: il dio del sole, giovane e bello, era un oracolo; emetteva parole cariche di significato, esattamente l’opposto del bla bla. Ecco che il tipo qualunque di Dusi diventa un Apollo moderno, un oracolo del nulla, del non senso.

Se l'Apollo di Dusi pronuncia il proprio nome dalla sottile silhouette del suo corpo, i lavori più recenti dell'artista sono stati scorporati dalla bocca del “parlante”. Ora sono le parole medesime che assumono tutta la loro carica. Anche senza figure questi lavori giocano con le parole classiche che vengono scambiate durante un discorso amoroso, una relazione intima tra due persone, semplificate a un’abile essenza. Nel suo E alla fine ha detto no, senza connotazioni di genere, Dusi libera in alto un flusso colorato e ottimista, fluttuante, colorato di sì di ceramica che termina, in un angolo in basso, nel suo inverso: un tagliente, inaspettato, finale no di neon rosso, che nega tutto ciò che era venuto prima. Trasformando l'antica ceramica nel moderno neon per la parola finale, Dusi replica il gesto in due materiali opposti, ma nega e àncora il potere dei tanti sì ascendenti e con la forza di un singolo no orizzontale, brillantemente illuminato.

Oppure, al contrario, un mutamento finale del cuore, un graduale lasciarsi andare: E alla fine ha detto sì è una fila lunga di no, scritti in corsivo, dei “no” di ceramica categoricamente nera sul muro, che scendono verso terra facendo abbassare gradualmente lo sguardo dello spettatore, quando improvvisamente si risolve in un singolo sì di ceramica d'oro. Qui c'è un'allusione sessuale: no, no, no, no, va bene: sì. In questo caso la verticalità anziché sollevare fa scendere lo spettatore fino a un punto in cui “no” in realtà vuol dire “sì”. Ma in questo caso arrivare al fondo è rivelazione e promessa. La materialità è protagonista: la ceramica gioca con l’accoppiamento alchemico nero/oro che si trasforma dalla scura materia prima fino ad arrivare, faticosa conquista, all’opus alchemico d'oro.

E infine Dusi reclama il corpo: la ceramica e il neon si connettono e disconnettono in un'opera pulsante dal titolo Love, dove maschile/femminile, maschile/maschile prendono la parola. Amore che sta sopra si rispecchia in basso da su due figure in silhouette di ceramica con genitali di neon, illuminati (o è forse la risposta dei corpi a bisogni primari che genera e riflette la parola Amore sopra di loro?). Ci si sposta gradualmente dalla mente al corpo, dalle parole al vento, senza senso, ai genitali veri e propri, fatti di neon. Quello che era incominciato come un corteggiamento del linguaggio a volte colorato, a volte vuoto, a volte privo di significato o addirittura fuorviante, diventa ora la più elementare e viscerale relazione tra corpi. Dusi sembra dirci che quando noi smettiamo di assegnare significati, when we “stop making sense”, quando le parole si svuotano di significato, il corpo prende il sopravvento in tutta la sua sensualità senza senso.

“Somebody calls you but you cannot hear, get closer to be far away, only one look and that’s all it takes, maybe that’s all that we need.” Talking Heads, “Girlfriend is Better,” Stop Making Sense

NOTE
L’autrice ringrazia Carol Switzer, Jennie Hirsh e Tamar Asken per i commenti incisivi e Giovanna Cantoni e Costanza Asnaghi per la traduzione. L’autrice è inoltre grata a Fabrizio Dusi per la pazienza nel rispondere alle domande riguardo alle sue opere. L’autrice ringrazia infine Ilaria Pareschi per il contatto con l’artista.

(1)Weymouth, Tina (1992). In Sand in the Vaseline (p. 12) [libretto che accompagna il CD]. New York: Sire Records Company.
(2)Berry, Patricia. “Echo’s Passion,” in Echo’s Subtle Body (Dallas: Spring Publications, 1982), p. 109.



SHARON HECKER

Sharon Hecker è una storica dell’arte specializzata in arte italiana moderna e contemporanea. Attualmente ricopre la posizione di Academic Dean e Adjunct Professor di Storia dell’Arte presso IES Abroad Milan/Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Ha tenuto conferenze e pubblicato libri e articoli su Medardo Rosso, e ha curato la mostra Medardo Rosso: Second Impressions all’Harvard University Art Museums, St. Louis Art Museum, e al Nasher Sculpture Center (catalogo Yale University Press 2004). Ha scritto anche su Lucio Fontana e Luciano Fabro.